Vai ai contenuti

In the eagle’s shadow

Salta menù
Title
Salta menù
Title
Salta menù

In the eagle’s shadow

Andrea Mottarella fotografo
 
Un grande privilegio di vivere in montagna risiede nella possibilità di goderne ogni giorno, di rispondere al suo richiamo ogni volta che lo desideriamo. Gli attimi vissuti quella sera sono un privilegio.
Uscito dal lavoro, in un pomeriggio all’apparenza uguale a tanti altri, sono rientrato a casa e, insieme a mio figlio Simone, sono partito verso un’escursione serale, deciso a lasciarmi alle spalle il sonno della società e immergermi nei sogni che risiedono nelle alte montagne.
Un altro grande privilegio, che sento appartenermi, è la possibilità di vivere attimi autentici e profondi accanto a un figlio. Ed anche in questo, la montagna, veste un ruolo da protagonista.
La missione fotografica di quella sera è semplice e ambiziosa al tempo stesso: uno scatto capace di racchiudere un primo piano ricco di dettagli unitamente a uno sfondo che abbia come soggetto principale la montagna. Un’immagine che appare ben precisa nella mia mente, esaltata dal riflesso e dall’atmosfera intima delle luci crepuscolari.
Per riuscire nell’obiettivo, la scelta del luogo non può essere casuale. Occorre tenere conto di un insieme di elementi: i tempi di percorrenza, l’orientamento geografico, la morfologia dei rilievi, il grado di difficoltà, la stagione. Una trama di fattori che, nelle giuste condizioni, può condurre allo scenario che ho in mente, o comunque, a qualcosa che gli rassomigli.
La Valle di Predarossa sembra incarnare al meglio queste caratteristiche. Con il suo parcheggio situato a 1955 metri di quota, raggiungibile comodamente in auto attraverso una strada che si inerpica da Filorera, piccolo abitato della Val Masino, ti proietta in pochi istanti in una dimensione sospesa, unica, dove l’alta montagna ti avvolge immediatamente con tutta la sua imponenza.
Con la fine del tratto carrozzabile ha inizio il sentiero principale, che si sviluppa ampio e gentile in direzione dell’imponente Monte Disgrazia. La montagna che non abbandona mai il suo manto nevoso, in nessuna stagione dell’anno. È una delle vette più amate dai valtellinesi: con i suoi 3678 metri e la sua cresta inconfondibile, dal dolce profilo, possiede un fascino unico, una mescolanza equilibrata di forza e grazia.
Per me è molto più di una montagna: è una bussola. Conosco bene tutti i suoi versanti e, ovunque mi trovi nella valle, so che posso alzare gli occhi e ritrovare in lei un punto fermo, un riferimento sicuro, un orientamento che trascende la geografia.
Peculiarità assoluta di questa vallata è senza dubbio la sua morfologia glaciale, che la rende unica, riconoscibile e particolarmente amata. Due pianori, collegati da un lieve dislivello, formano magnifici terrazzamenti erbosi, che più avanti lasciano spazio alla morena glaciale che, con la sua cresta affilata, traccia la via di salita verso il ghiacciaio di Predarossa e la sommità del Monte Disgrazia.
Gli ampi pianori sono attraversati dal torrente Duino che, con le sue anse, che seguendo regole misteriose e incomprensibili, disegna linee d’acqua di un fascino fiabesco.
Imbocchiamo decisi il sentiero e saliamo verso il primo pianoro, il più ampio. Ci fermiamo poco sotto, faccio qualche scatto e cerco di immaginare la scena crepuscolare, dando così inizio alla ricerca dello scenario desiderato.
Non è facile spiegare questa sensazione: è come se quell’immagine, proprio quella, abitasse in qualche angolo remoto del subconscio. La percepisco, la intravedo, ne ho abbozzato una traccia, ma non mi appare chiaramente: vedo solo il riflesso sfocato di sé stessa. Eppure so che, quando la troverò, la riconoscerò all’istante. È come avere in mano un mazzo composto da centinaia di chiavi, sapendo che solo una è quella giusta. E quando sarà inserita nel cilindretto, suonerà diversamente da tutte le altre, indicando insindacabilmente di essere quella giusta. Proseguiamo lungo il sentiero che percorre il lato orografico destro della valle, attraversando passerelle di legno che ci permettono di superare la zona paludosa del primo pianoro.
Mi rimprovero, imprecando sottovoce per non aver portato gli stivali, strumenti indispensabili quando ti ritrovi a fotografare in ambienti umidi, dove ogni passo è una piccola esplorazione.
«Mannaggia, Simone, avremmo dovuto portare gli stivali. Come facciamo ora a raggiungere il centro della piana, dove c’è quella concentrazione di eriofori e quel cespuglio di arnica?»
Simone, con la poesia onesta e incondizionata dei bambini, risponde:
«Eh, papà… ci dobbiamo ritornare.»
Sorrido. Il suo entusiasmo ingenuo e puro mi riempie di gratitudine, anche se so che, nel breve, non sarà facile ripetere quella salita.
Attraversiamo rapidi le passerelle e raggiungiamo presto il fondo della piana, dove il Duino irrompe spinto dal dislivello che lo separa dal pianoro superiore.
Decidiamo di salire centralmente, lasciando il sentiero alla nostra sinistra. Cerchiamo un punto sufficientemente alto e libero dalla vegetazione, da cui poter immortalare le sinuose anse del torrente e attendere che le luci basse del crepuscolo completino la cornice.
Questa ricerca ci costringe ad attraversare più volte il torrente, saltando da un masso all’altro, cercando sempre il passaggio più agevole e sicuro.
Osservo Simone alle mie spalle. Lo vedo deciso, agile, perfettamente a suo agio in quell’ambiente e in quel gesto atletico. Mi inorgoglisco, lo lodo, lo incoraggio.
Continuiamo a salire e la difficoltà cresce quasi di pari passo. I passaggi buoni diventano rari, il torrente si fa più compatto, come un grande albero che risale dalle radici verso il tronco.
Più in alto incontriamo un vero collo di bottiglia, dove l’idea dello scatto perfetto si fa sempre più remota, mentre il rischio di cadere aumenta. Decidiamo allora di piegare a sinistra, ritrovando il sentiero che risale il fianco del Duino.
Lì, ancora una volta, Simone mi sorprende con la sua forza e la naturalezza con cui affronta la montagna, sia in salita che in discesa. In lui rivedo attimi lontani della mia giovinezza.
Raggiungiamo infine l’inizio della seconda piana, dove il torrente, dopo un breve respiro, riprende la corsa verso valle. Mi fermo a scattare qualche fotografia da un punto ormai classico e fin troppo conosciuto.
Non sono soddisfatto dei risultati, né convinto di aver trovato la “chiave giusta”. Smonto la fotocamera dal treppiede e, dopo un ultimo sguardo contemplativo tutt’intorno, chiamo Simone. Insieme attraversiamo il piccolo ponte di legno che collega i due versanti della valle.
Spinto da un residuo di speranza nelle nuove prospettive che la discesa potrebbe offrirmi, e dal rapido calar del sole che si appresta al suo quotidiano commiato, imbocco il sentiero che ci riporta al punto di partenza.
L’esperienza mi suggerisce presto che rimangono poche possibilità per lo scatto desiderato, e le speranze cedono il posto a una pacata rassegnazione. Ma non c’è tristezza, no.
Questa è una battaglia che ho combattuto molte volte, imparando, passo dopo passo, a liberarmi dall’ossessione dello scatto perfetto.
Quando le uscite diventano rare, impari ad apprezzarle maggiormente, a coglierne l’essenza. Ogni singolo momento trascorso in montagna assume un valore nuovo, più profondo, più autentico.
Imparo a dare spazio alle piccole cose: ai suoni e ai silenzi, ai profumi, al mutare delle luci, agli incontri inaspettati che trasformano e rendono unico ogni cammino.
Mentre ci avviciniamo all’auto, io e Simone chiacchieriamo spensieratamente, da padre a figlio, come a volte è difficile fare nella quotidianità.
La montagna possiede questo potere, sa unire. Nei suoi spazi sconfinati e nei suoi silenzi crea legami, avvicina le anime, trasforma il tempo condiviso in un momento di pura, semplice spiritualità.
Percorriamo l’ultimo tratto del Duino, quello che sembra una pausa prima di una nuova corsa. L’acqua rallenta, prende fiato, per poi gettarsi di nuovo nella sua danza frenetica fatta di curve, accelerazioni, brusche frenate e grandi salti.
Il cielo, come una tela bianca, è pronto a tingersi delle calde sfumature del crepuscolo quando, superato uno sperone roccioso, appare l’automobile.
Con un soffio di malinconia e con quel passo tipico del ritorno, quello di chi ha ormai consumato la propria carica d’entusiasmo, ci avviamo a concludere la nostra piccola avventura.
Poi, all’improvviso, un’idea. Un sussurro silenzioso, di quelli che non sai da dove provengono. Un’intuizione, figlia di regole sconosciute.
«Simone, saliamo da quella parte… vediamo cosa c’è al di là di quel dosso.»
«Sai,» gli dico con un mezzo sorriso, «sono stato tante volte in questo posto, ma non sono mai salito fin lassù.»
Lo dico a lui, ma forse sto parlando a me stesso.
Torniamo a salire lungo un piccolo sentiero, a tratti appena accennato: uno di quei sentieri dei selvatici, tracciati più dall’istinto che dalle logiche umane.
Camminando, tengo lo sguardo fisso al cielo, cercando di capire quanto tempo ci separi ancora dal tramonto.
Poi, d’un tratto, gli occhi si posano su un’ombra che si muove lenta e solenne sopra di noi. Una grande sagoma nera che taglia il cielo.
«Guarda, Simone… l’aquila!»
Ci fermiamo. Simone, che era rimasto un poco indietro, mi raggiunge in fretta. Restiamo in silenzio a osservarla.
Nel suo volo leggero e planante disegna ampie traiettorie circolari sopra le nostre teste. Ora la si distingue chiaramente, nella sua imponenza e nei riflessi di colore che ricordano la terra e la roccia. A tratti sembra avvicinarsi, sempre più grande, sempre più maestosa.
Riprendo la mia “corsa”, verso qualcosa che forse non esiste, o che esiste soltanto nella mia mente.
Simone rompe il silenzio con una domanda improvvisa:
«Papà, ma l’aquila… può attaccare l’uomo?»
Sorrido, cercando di rassicurarlo.
«Stai tranquillo, Simone. Solo i bambini molto piccoli, e solo in rarissime circostanze.»
Non credo di averlo davvero tranquillizzato. I suoi pensieri, in quel momento, sono altrove, distanti dai miei, come le nostre età.
Camminiamo. A tratti, l’ombra dell’aquila ci raggiunge ancora, sfiorandoci la pelle, ricordandoci che è sempre lì, sopra di noi. Sembra seguirci, o forse guidarci.
Procede al nostro passo, come se anche lei stesse cercando qualcosa, un po’ come noi, ognuno immerso nei propri pensieri, ognuno inseguendo il proprio misterioso piano.
Raggiungiamo la sommità del dosso, un breve pianoro di una ventina di metri, che termina improvvisamente con un salto roccioso. Lo raggiungo, trattenendo il respiro.
E lì, sul ciglio, mi appare, la vedo chiaramente: la chiave.
Un cespuglio tondeggiante di erba ispida, tipica delle alte quote, circondato da una corona d’acqua stagnante, residuo dell’area paludosa della prima piana. Il riflesso, illuminato dalle calde luci crepuscolari, cattura la cima del Monte Disgrazia, la cui sagoma inconfondibile completa l’inquadratura.
Nasce così “In the Eagle’s Shadow”: piedi immersi nell’acqua stagnante del Duino, il sole che scende oltre l’orizzonte, una fotocamera, un treppiede, un figlio al proprio fianco. Più in alto, a condividere quell’istante, un’ombra silenziosa. Anch’essa alla ricerca di qualcosa o, forse, come in fondo lo è per me, di un semplice soffio di libertà.  





Torna ai contenuti